Cattedrale di Cagliari 9 aprile 2020. Messa nella cena del Signore
1. «Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). In quella terribile e lunga notte in cui s’inoltra Giuda, la notte della tristezza fino alla morte di Gesù nel Getsemani, la notte del bacio traditore dell’amico, dell’abbandono pauroso dei discepoli e del rinnegamento di Pietro, in quella notte Gesù ama i suoi fino all’estremo limite, fino all’ultima possibilità concessa ad un uomo, ossia dare la vita. Proprio perché conosce l’ora della sua morte, Egli la trasforma in preghiera, in adorazione del Padre e amore per i fratelli. Il sì di Gesù tramuta quella che poteva sembrare una delle tante esecuzioni capitali avvenute in una regione periferica dell’Impero Romano, nella nostra unica speranza, nel termine della nostra adorazione. L’eucarestia è il sacramento di questo amore più grande (sino alla fine) del quale siamo destinatari noi, senza merito suoi amici. Non possiamo non affidare all’amore più forte della morte i tanti fratelli che hanno perduto la vita a causa della pandemia in corso.
2. Nel racconto di Luca, Gesù ha inaugurato la celebrazione dell’ultima cena con queste parole: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione» (Lc 22,15). Egli non ha subito quell’ora, ma vi è andato incontro desiderandola. «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto! (Lc 12,49-50). Gesù Cristo ha atteso e desiderato – e sempre desidera e attende – il momento dell’incontro con noi, dell’unione con ciascun uomo. Facciamo memoria di questo desiderio di Cristo che precede e suscita il nostro desiderio.
3. In questo Giovedì Santo, in modo del tutto straordinario (cioè fuori dal consueto), la celebrazione del sacramento dell’unità con Cristo e tra gli uomini si svolge senza concorso di popolo, in Chiese vuote. E ci accorgiamo che ci manca, che vorremmo andare a Messa, fare la comunione, incontrarci con la comunità. Desideriamo Cristo perché Lui per primo ci cerca, desideriamo l’eucarestia perché Egli ci ha raggiunti e ci attrae a sé. Questo desiderio è suscitato dallo Spirito di Dio che ci attira con «gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Quello che può sembrare solo il malinconico segno di una mancanza si trasforma nel gioioso, anche se struggente, riconoscimento della presenza di Cristo nel nostro cuore. Il nostro desiderio è la ferita del Suo amore.
Nella Chiesa ci sono state circostanze in cui era impossibile partecipare alla Santa Messa, per esempio nei tempi di persecuzione antichi e contemporanei. Si può parlare di una «Eucaristia della nostalgia, nell’attesa desiderosa del Signore, che, solo, può donare se stesso», di una «Eucaristia del desiderio» che ci prepara a riceverla in modo nuovo e più gioioso (J. Ratzinger). Non lasciamoci determinare dalla tristezza di quello che manca, ma sappiamo riconoscere i segni della venuta del Signore in noi. Lo desideriamo perché siamo già suoi.
4. Questo desiderio ci purifica e rende possibile il vero miracolo, ossia l’imitazione di ciò che celebriamo, la trasformazione della nostra vita nel mistero eucaristico che ci fa bramare Dio («Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera», Gv 4,34) e ci attira nella donazione di Cristo a favore dei fratelli bisognosi («Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me», Mt 25, 40). Nell’attesa di affollare nuovamente le nostre chiese chiediamo già nel desiderio la grazia indicata da San Leone Magno: «La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo». Diventiamo, lì dove oggi ci troviamo, a casa e in famiglia, l’amore che celebriamo, che mangiamo e adoriamo nel sacramento dell’eucaristia.